La gestione psicologica dell’infortunio
Luglio 2011, Silvi Marina, ci avviamo a vincere il torneo di calcetto in spiaggia. Beh, non è che sia molto difficile: con tre figli così e giocando in quattro la cosa è fatta.
Ma all’improvviso e appoggiando il piede sulla sabbia, sento un dolore lancinante. Una sorta di rottura interna, sorda, non descrivibile: il pondolo e il trillice del piede sinistro. Non riesco più a muoverli.
Penso: sarà un semplice contrasto. Mi muovo sulla sabbia e incredibilmente sento il medesimo dolore anche al piede destro; stavolta è l’illice. Due passi, due infortuni. Il ghiaccio si rivelerà un semplice palliativo anche se pensavo fosse il toccasana miracoloso. Tutto questo di sabato e a meno di ventiquattrore dal rientro in Ticino. Ergo: 700 chilometri guidando e sfruttando il tempomat. E lunedì all’ospedale la diagnosi impietosa: triplice frattura che per me, sportivo d’èlite, significava otto settimane di stop forzato.
Sabato, Bellinzona, campo di calcio. Questa volta il grido c’è e si sente. Un contrasto di gioco, un dolore, la speranza di noi tutti genitori che sia una semplice bagatella. Lo attorniamo e cerchiamo, anche lì e inutilmente, il ghiaccio. A distanza di poche ore il verdetto, impietoso: frattura della tibia.
Due casi emblematici, due tra le migliaia che accadono a sportivi. Non importa la disciplina e credo che tutto sommato nemmeno lo sia la differenza d’età poiché sono sicuro che a volte i giovani siano più maturi degli adulti nel prendere decisioni. E forse anche più saggi.
L’infortunio ci porta ad una nuova situazione che è pero e paradossalmente anche lo spartiacque tra due momenti particolari: il pre e il post infortunio. E dal secondo momento nasce il tema della gestione dell’infortunio e con esso tutta una serie di temi per l’infortunato; dall’autonomia della propria gestione corporea al potenziale nuovo “ruolo” di ammalato, di infortunato e quindi di “diverso”, rispetto agli altri.
Bisogna essere chiari fin dall’inizio: l’infortunio e più in generale il dolore, sono eventi che appartengono al modo dello sport e che quindi possono accadere. Un medico sportivo mi disse, un giorno, “Mauro devi mettere a preventivo almeno una settimana di stop all’anno quale sportivo, sia per infortuni che per malattia. È inevitabile”.
Tuttavia, mentre il dolore può assumere per un atleta diversi significati anche positivi, se si pensa al performance routine pain, cioè al dolore fisico che preannuncia l’entrata nello stato di forma, o al dolore-allarme, che suggerisce l’interruzione dell’attività in corso segnalando la possibilità di un’imminente lesione, l’infortunio vero e proprio (inteso come incidente inatteso) rappresenta quasi inevitabilmente un evento che destabilizza l’equilibrio emotivo dello sportivo.
Non adattarsi mentalmente all’inatteso evento può comportare, a seconda dei fattori contestuali e della personalità dell’atleta, la comparsa di sensazioni di rabbia e impotenza, sbalzi di umore, sensi di colpa, domande insistenti circa il proprio ritorno alla pratica sportiva, pensieri irrazionali e depressivi, rientro problematico all’attività così come altre patologie che non desidero prendere in considerazione, in questo caso.
Gli eventi, comunque, non accado per caso. Questo almeno quello che penso io. Tutti noi siamo stati confrontati, ne sono sicuro, durante la nostra vita a situazioni che lì per lì ci capitano e di cui non riusciamo a capirne il motivo se non in un secondo momento e spesso, quando siamo pronti (psicologicamente) a capirne il significato.
Ecco che allora, cosa che io ho fatto dopo, molto dopo la prima incazzatura, bisogna o bisognerebbe chinarsi sul perché di un infortunio. Tra le molteplici spiegazioni che si trovano ve ne propongo alcune:
- carenza di concentrazione / attenzione,
- non adeguato inserimento nel gioco,
- espressione troppo accentuata e mal canalizzata dell’aggressività dell’atleta,
- gestione dell’ansia e dei fattori stressanti presenti
- ed infine nel mancato calcolo del rischio dell’azione.
Evidentemente questa non è che una semplice lista di potenziali motivazioni non esaustiva e magari non pertinente con molti casi d’infortunio. Tuttavia ci deve far capire che vi sono delle ragioni più profonde verso un evento che non il semplice dirsi “era il destino” o “per una frazione di secondo o di centimetro è successo”.
Nel mio caso pare ovvio non si trattasse di intervento di gioco. Era impossibile, a entrambi i piedi e a distanza di minuti? Ma piuttosto e la realtà era già insita in me, di infortunio da stress per eccessivo carico di lavoro.
Uno dei primi pensieri, forse il primo in assoluto è sempre quello: “Giocherò ancora?”. “Sarò ancora forte come prima?”. “Potrò ancora correre come prima?”. Nel caso di un calciatore, ad esempio, essere in campo al più presto possibile può divenire un’ossessione e scatenare una serie di dubbi sulla sua felice e rapida ripresa.
A questo punto la riabilitazione fisica e psicologica assume una rilevanza notevole. I punti da prendere in seria considerazione sono:
- La presa di coscienza di quello che è successo e di quello che sta succedendo al suo corpo porterà
l’atleta ad acquisire maggiore consapevolezza sui suoi limiti e sui rischi che chi fa sport in modi
diversi deve affrontare; se non subentra il fatto di accettare l’evento l’atleta psicologicamente
resterà ancorato a questa parte del passato, senza riuscire a futurizzare; - L’elaborazione di ogni fase (cause, reazioni, tempi di riabilitazione) deve essere presa sul serio
e curata in ogni suo dettaglio, altrimenti l’atleta rischierà di soffermarsi spesso,
durante la sua carriera, su quello che non è riuscito ad affrontare a tempo debito; - I tempi di recupero (psicologico e fisico) sono fondamentali: non bisogna affrettare i tempi
per evitare che l’atleta scenda in campo con il trauma, ad esempio, alla gamba guarito ma
con la paura di rifarsi male; - Quando parliamo di infortunio possiamo pensare solo ad uno stop dall’attività agonistica
di qualche settimana, a volte invece si tratta di dover subire parecchi esami ed accertamenti,
seguire delle terapie farmacologiche o fisioterapiche specifiche anche dolorose e faticose; - L’importanza di avere vicino delle persone care che formano la rete sociale dell’atleta
(parenti, amici, fans, colleghi) è importante per la velocità di recupero dall’evento;
anche vedere nella propria stanza d’ospedale i componenti della squadra o del team
offre un sostegno che si rivela preziosissimo.
Perché scrivo tutto questo? Perché spesso e alle nostre latitudini si sottovaluta ( o non si conosce) il lavoro che un mental coach piuttosto che uno psicologo sportivo, può fare. La parte psicologica è estremamente importante se non più importante di quella puramente riabilitativa in termini fisici. “Puoi essere guarito fuori ma non dentro” mi viene da scrivere. E allora cosa fare? Cosa potremmo fare?
- Elaborare l’incidente (in terapia, in colloquio, con tecniche di rilassamento, rivivendo l’evento);
- Riflettere sull’immagine di prima (vincente e sana) e connetterla senza paura ma con rinnovato desiderio
di esprimere il proprio valore all’immagine del dopo (temporaneamente compromessa); - Superare la paura di conseguenze fisiche, di cambiamenti di vita o nello sport;
- Non avere paura di tornare in campo e rifarsi male;
- Non sentirsi “diverso” da prima, abbiamo solo vissuto un’esperienza;
- Superare la paura di aver perso il proprio ruolo nella squadra o nel team.
Con particolari tecniche possiamo tutti, sportivi e non, dopo un trauma o infortunio, far fronte agli eventi con rinnovata fiducia in sé.
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