L’autostima nello Sport e nella vita
A qualcuno può sembrare paradossale, ad altri incongruente. In realtà, noi “siamo” e ci “atteggiamo” in differenti modi, approcci, costumi. È sottile ma la personalità di un individuo traspare anche dal suo modo di correre, calciare un pallone, andare a canestro, tirare di destro così come affrontare un avversario sul tatami piuttosto che alzare il bicchiere per bere una bibita.
La postura, il modo di accavallare le gambe, quello di sedersi, camminare, guardare o meno una persona negli occhi. Questi alcuni esempi di chi siamo in diversi ambiti.
È comune affermare che lo sport tempra il carattere. Vero, ma in realtà potrebbe anche essere l’inverso. Ho personalità, ho una buona autostima, sono uno sportivo eccellente.
A supporto di questo modo d’essere troviamo l’aspetto mentale, altrettanto importante. A tal punto che è oramai assodata la pratica del mental coaching su atleti esperti di varie discipline.
Fisico e mente hanno, quindi, la stessa valenza. L’allenamento e uno stile di vita sportivo, con l’aiuto di allenatore, vice e della società, generano una forma fisica ottimale. Quella mentale la si raggiunge attraverso esercizi specifici guidati da un mental trainer competente.
Lo sviluppo armonico di abilità motorie e mentali supplisce sia all’esigenza di allenarsi per competere che anche a quella legata a una realizzazione del proprio sé come persona. Ciò passa attraverso uno stato di benessere che va oltre alla semplice attività fisica. Si traduce in una accresciuta autostima delle proprie capacità come persona, raggiungendo livelli eccellenti di autocontrollo, migliore gestione dello stress ecc.
Vediamo, dunque, come lo sportivo abbia a disposizione tutta una serie di strumenti che gli permettono di adoperare le proprie attività e eccellenze per massimizzare la prestazione.
Ma siccome parliamo anche di emozioni e quindi (e per fortuna) di fattori anche imponderabili non sempre il raggiungimento dei propri obiettivi avviene così come auspicato. Quando le cose non funzionano come si vorrebbe, ecco che l’atleta dovrebbe fermarsi e valutare bene ciò che sta facendo e come vive la situazione.
A questo punto interviene un fattore molto importante: la percezione delle proprie capacità, qualità e come queste vengano riconosciute.
Riconoscimento scomposto in due fattori: neutro e descrittivo. Il primo, per esemplificare ci dà un’informazione molto oggettiva “sono alto 190 centimetri”. Il secondo, per contro, è di tipo valutativo: “sono un ottimo atleta?”.
Mentre per il primo fattore la percezione è chiara, per il secondo entrano in gioco due valenze: positiva o negativa. Entrambe ci danno delle informazioni, prettamente soggettive “sono un ottimo atleta”, “sono scarso”.
Quest’ultima informazione è sempre presente e ci accompagna durante tutta la nostra vita poiché ci mette direttamente (la maggior parte delle volte) in competizione o confrontati con gli altri a noi vicini e in diversi ambiti: familiare, sportivo, scolastico, professionale.
Tale modo di agire è molto importante poiché ci dà la possibilità di crescere e misurarci rapportati all’altro.
Senza questa tipologia di raffronto perderemmo l’orientamento poiché non saremmo più in grado di posizionarci nel contesto sociale.
Evidentemente l’optimum sta nell’avere una propria autovalutazione che sia il più coerente e stabile possibile; in effetti l’instabilità, il dirsi continuamente “sono bravo”, “non sono bravo” ha una valenza destabilizzante. Questo pendolo emozionale non fa che minare la nostra autostima.
Ad esempio, focalizzarsi su un unico errore fatto (all’interno di una prestazione eccellente) risulta avere un impatto negativo evidente. Qui, allenatore e mental coach hanno una responsabilità molto accentuata: eliminare questa distorsione cognitiva che non è unica.
Albert Ellis e Aaron Beck (www.meta-mente.com) affermano che il nostro modo di pensare influenza le nostre emozioni. Ad esempio, non è il fatto che ci sia il sole o che sia nuvoloso a fare di una giornata una bella giornata, ma il significato che il sole o le nuvole hanno per noi.
Ma cos’è una distorsione cognitiva e perché sono così comuni? Le distorsioni cognitive sono i modi attraverso i quali la nostra mente ci convince di qualcosa al di là che sia vero o no. Questi pensieri approssimativi finiscono spesso per rafforzare il pensiero negativo o emozioni negative in modo che suonino come cose razionali e precise, ma in realtà servono solo a tenerci in uno stato negativo.
Per il calciatore potrebbe suonare così: “il mio piede debole, il sinistro, non sarà mai come il destro”. Il pensiero negativo rafforza l’inconscio e viceversa; il risultato sarà quello di non voler migliorare il proprio sinistro poiché non serve “è debole”.
Questo è solo un esempio rapportato ad una specifica distorsione cognitiva. Ve ne sono ulteriori che ci portano a sottostimare, ad esempio, eventi positivi, o ancora altre che fanno sì che ci si assuma la responsabilità totale e personale di un evento negativo, anche quando questo non è vero (“abbiamo perso la partita, tutta colpa mia”).
Cosa fare per cercare di contrastare e eliminare questi influssi? L’utilizzo del Problem Solving risulta essere una pratica eccellente, supportato dal Self Talk o “dialogo interno” atto a contrastare, vedi quanto precedentemente scritto, quei pensieri negativi che alterando l’umore inducono ad un abbassamento della soglia attentiva dell’atleta provocandone una diminuzione delle prestazioni.
Quindi: analizzare la situazione per quel che è, scomporre le situazioni, definire quali sono gli obiettivi da raggiungere fino a ricercare la soluzione ottimale per noi. Infine, valutare la scelta fatta e criticarla al fine di appurare che ciò che desideriamo sia effettivamente ciò di cui abbiamo bisogno.
Una sorta di pensiero sistemico dettato da una atteggiamento mentale olistico che ci aiuta a capire meglio evitando le trappole di una visione “miope” e limitata a certi aspetti della problematica. Maggiore sarà il coinvolgimento maggiori saranno le probabilità che le soluzioni adottate siano quelle giuste per noi.
Perché ricordiamoci che, a volte, cambiando di prospettiva le cose si vedono in maniera diversa e spesso “migliore”.