Campionismo e genitori nel calcio e non solo

«La mia squadra ideale è una squadra di orfani: Molti rovinano i figli senza nemmeno rendersene conto. Non hanno raggiunto i risultati sperati e riversano sui bambini le proprie frustrazioni»
Paolo Pulici, ex campione del Torino calcio

Mamme e papà critici e molto attenti alle modalità di allenamento e gara / partita. Spogliatoi oramai aperti ai genitori. Maleducazione dilagante dei genitori durante gli incontri dei propri figli. Comportamenti da ultras più che di semplici genitori. E, infine, tendenza sempre più diffusa di considerare i propri figli come potenziali campioni da crescere, possibilmente in un contesto “ovattoso”.
Il passo verso il campionismo, viste le premesse sopraccitate, è breve. Molto breve. Ma che cos’è questo fenomeno esploso in modo così prepotente e dilagante in tutti gli sport, soprattutto nel calcio?

Fabio Ciuffini ne dà una definizione alquanto azzeccata definendolo un fenomeno che si manifesta nel momento in cui un bambino o un giovane atleta viene forzato a raggiungere ossessivamente la vittoria e risultati sempre più prestigiosi con finalità implicite di riscatto sociale. In questo caso il giovane atleta è caricato di pretese da parte dei suoi familiari che non sono compatibili né con la sua età e neppure con la sua maturità. Il risultato è un’esposizione eccessiva a stress che portano: sbalzi di umore, ipervalutazione del proprio talento, fino a una forte riduzione nel rendimento scolastico e, in alcuni casi, rischio di doping o addirittura, andando verso l’altro estremo, drop-out agonistico.
Salvador Minuchin, noto per aver sviluppato la terapia strutturale di famiglia, ne individua tre tipologie principali.
La famiglia funzionale, con ruoli definiti e senza sovrapposizioni. Qui ogni persona può passare da uno all’altro ruolo in funzione delle circostante.
La famiglia disimpegnata con ruoli rigidi e dove vige un legame emotivo, tra i membri familiari, minimo.
Infine quella invischiata con confini molto vaghi all’interno e molto rigidi rapportati all’esterno.

Mi soffermo sul secondo e terzo modello citati. Quella disimpegnata trascura la vita sportiva del giovane e di riflesso porta l’atleta a un’eccessiva tendenza all’attaccamento di quest’ultimo nei confronti del proprio allenatore. In questo caso non è raro il drop-out sportivo (abbandono), dovuto principalmente all’assenza di motivazione e quindi a una sorta di auto isolamento “sociale” nel gruppo. Nel mio caso, io provengo da questo tipo di famiglia. Ricordo come mia madre fosse più infastidita dal fatto che dovessi aumentare la frequenza dei miei allenamenti calcistici (ergo più bucato da lavare per lei), piuttosto che essere contenta del fatto che a sedici anni fossi già selezionato per giocare ad alti livelli. Parallelamente mio padre con la sua “assenza ingiustificata” (come scriverebbe Carotenuto). Ricordo, forse, la sua presenza ad un unico mio allenamento su anni di pratica calcistica. E io che “vidi” questa sua presenza come fastidio.

La famiglia invischiata, per contro, vede la presenza assidua e soffocante dei genitori. Questa è la “via più breve” verso lo sviluppo del Campionismo. Paradossalmente, questi genitori hanno buoni rapporti con staff tecnico e società. Sempre disponibili e collaborativi. Alla lunga vige una sorta di raddoppio, a casa, dei suggerimenti tecnici anche alla luce del rapporto istaurato genitore – allenatore. Qui il ragazzo è sottoposto a un’elevata dose di stress aggiuntivo. Il genitore arriva a livelli dove, oltre alla propria figura già dominante, inserisce anche quella nuova volta al “potere e al controllo” del figlio dal punto di vista sportivo.
È evidente, da queste ultime righe, come sia pericolosa l’equazione genitore = riscatto attraverso il figlio.
Evidentemente, a lato di questo aspetto molto importante, vi è quello generato, portato, dall’atleta stesso attraverso la propria personalità. Un corollario di Bisogni quali quello dell’approvazione, di completamento di competenza oppure di affiliazione. Tutti bisogni che sono una spinta motivazionale al successo.
Resterebbe da chiedersi come fare e soprattutto come approcciarsi in maniera corretta allo sport, all’attività sportiva da genitore. La risposta: lasciare la possibilità, al proprio figlio, di sbagliare e di sviluppare le proprie competenze e capacità sportive. Così facendo si genera anche un forte impulso verso l’autostima nel proprio figlio.
Non di meno ricordarsi che lo sport, ridotto all’Essenza, è puro divertimento e come tale dovrebbe essere interpretato. Così facendo, l’atleta avrà modo di crescere e sviluppare anche il proprio “orientamento autonomo”.
Quindi “guardare” al proprio figlio in modo corretto. Non da “famiglia disimpegnata” (da lontano e senza interesse); neppure da “famiglia invischiata” (troppo da vicino).
Per quanto attiene all’allenatore, avere in chiaro il proprio ruolo di “fine osservatore dei ragazzi” e mantenere il giusto equilibrio e distacco dai genitori degli atleti. Ma questo sarà tema di un mio prossimo intervento…

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Mental Trainer

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