Filosofia induista e stato di “Flow”: due visioni, un legame energetico unico

Il pretesto per scrivere e descrivere il mio caso me lo ha dato mio figlio chiamato quale raccattapalle per una recente partita di calcio di coppa Svizzera.

Emozioni, vissute ed “impregnanti”. Una sorta di “imprinting”, non me ne voglia Lorenz, di finestra temporale che si apre per un certo lasso di tempo necessario a stampare (indelebilmente) un’azione o atto.  

Quello è e quello rimarrà anche con lo sbiadirsi parziale dei nostri ricordi, dovuto al succedersi degli anni.

Si, le emozioni rimangono. Due esempi: una partita di calcio giocata nel campo adiacente l’ex cartiera di Tenero con cinquecento persone che tifavano per la selezione dei turisti che batté, noi indigeni, per cinque a uno. Altre in Inghilterra, giocate con il cuore che batteva a mille quando incontravamo squadre formate, per dieci undicesimi, da giocatori di colore dalla struttura fisica e velocità superiori alla nostra.

Cambia lo sport che nel mio caso ora è l’atletica a livello competitivo, non le premesse.

Il dimagrimento, una buona efficienza cardiovascolare, il corpo che si modella o rimodella ritrovando – se persa – tonicità muscolare, il benessere fisico, la produzione di endorfine con una maggior sopportazione dei carichi di lavoro. Sono questi, anche, i risultati derivanti dall’attività fisica competitiva (e non).

Queste ragioni non sono però sufficienti per me quale corridore agonista continuamente alla ricerca della ricompensa nella prestazione cronometrica. Neppure lo è la motivazione che “banalmente” è il motivo per cui si va a correre, ed è tanto più efficace quanto più è forte ed ambiziosa.

Ciò che più conta è il perseguimento dei miei obiettivi, quasi ad ogni costo, perché ci credo veramente. Così come credo all’importanza dell’autostima quale “stile di pensiero” che si bilancia sulla continua interazione tra: informazioni oggettive che mi giungono e, soggettive che poi vengono da me elaborate, percepite e “metabolizzate”.

Ogni giorno, ogni allenamento è l’occasione buona per riuscire ad affrontare situazioni diverse che si presentano in ambiti differenti e non solo sportivi. E farlo anche attraverso piccoli “premi per me stesso” (un gelato, un piccolo dono) è il pretesto per alimentare la mia “consapevolezza” di vivere appieno le cose; in questo caso la mia attività sportiva.

Jung la definisce “individuazione”. Allorquando questa è legata effettivamente alla propria dinamica di crescita. Un sano, insomma, riferimento al proprio “Sé” in termini di “sviluppo ed espansione della sfera della coscienza”.
Ecco dunque che sport, consapevolezza del proprio “Sé” ed emozioni, formano un unico collante che passo dopo passo modella un percorso – un vero “training” – un lavoro personale per giungere ad un sano e stabile livello di autostima.
Un percorso personale intriso di “Energia” che, per principio fondamentale, non può rimanere statica.

Una vera e propria “meditazione dinamica” dove passato (istinto), presente (intelletto) ed intuito (cuore) sono miscelatori della stato di consapevolezza del proprio “Sé”.Corpo, testa e cuore, dunque. Cardini (anche inconsci) dell’attività sportiva che ha “oltre” e come fulcro, il proprio “essere”.

Ed è proprio l’intuito, stato attraverso il quale il nostro spirito sperimenta la realtà, che viene portato a consapevolezza attraverso la meditazione; lo sport. La stessa filosofia orientale (attraverso un passaggio di Buddha), tanto per citare un parallelismo, lo indica: “Quando ti muovi esiste solo il movimento, ma non colui che si muove”. Non importa la disciplina, non importa il luogo, né il contesto. È il qui e ora vissuto in modo consapevole e focalizzato all’atto di portare la propria energia, la propria concentrazione nel presente e viverle totalmente.

Qualunque gesto si faccia (pre-gara o gara) si è completamente assorbiti dall’atto. L’attività diventa talmente totale che l’atleta, l’attore, si perde nell’atto stesso. A tal punto da “respirarsi” ed isolarsi in uno stato meditativo fortemente piacevole.
Una sorta di “propria” scomparsa dove colui che corre lascia corpo e spazio alla corsa. Sembra, in questo istante, come se la corsa stessa fosse artefice unica di questa sensazione, di questo stato d’essere. Un momento di gioia, la giornata stupenda piuttosto che un panorama mozzafiato. In realtà e secondo la filosofia induista, questo istante potrebbe essere, è, l’avvicinamento naturale alla meditazione e allo scambio energetico con “Madre Terra”. In questo preciso istante la Terra è pronta a donarci qualcosa e noi siamo nello stato mentale, psico-fisico, di poterlo percepire. L’energia fluisce, lo scambio inizia.

Questa sorta di collegamento è vita. L’armonia che ne deriva favorisce il proprio essere e la sensibilità di questo atto porta alla centratura personale. Qui, dove la corsa non è meccanica, automatica troviamo la porta del nostro piacere: la Turiya. Definita come uno stato di coscienza pura che, allo stesso tempo, è sottostante e trascende i tre stati comuni di coscienza: la veglia, il sogno e il sonno (senza sogni). Un quarto stadio invisibile caratterizzato da due componenti: la vigilanza e la consapevolezza. La prima, una sorta di veglia non necessariamente associata alla consapevolezza di ciò che accade intorno a noi. La seconda, consapevolezza, consiste nella sua forma più evoluta: nell’essere consapevoli del proprio essere. Concetti ripresi anche da Sakyong Mipham Rinpoche Lama tibetano e maratoneta attraverso il suo libro “Corsa e meditazione: la via del benessere”.

Il libro spiega come allenamento fisico e spirituale siano caratterizzati da quattro fasi fondamentali, simboleggiate sulle bandierine buddiste. Bandierine che vengono lasciate ondeggiare al vento in modo che le benedizioni dei mantra su di esse stampati vengano portate in giro per il mondo e che allontanino le influenze nefaste. La versione classica prevede ai quattro angoli di ciascuna bandierina i quattro animali protettori degli elementi e delle quattro direzioni: la tigre (simbolo dell’elemento aria o legno), il leone delle nevi (simbolo della terra), il garuda (simbolo del fuoco), il drago (simbolo dell’acqua). Al centro si trova il Cavallo del vento che simboleggia la direzione e la velocità con la quale i desideri vengono trasmessi e che porta sul dorso la “gemma che esaudisce i desideri” e che armonizza i quattro grandi elementi (terra, fuoco, acqua, aria). L’origine della parola suggerisce il suo significato dello “spazio”, il quinto elemento che fa da supporto degli altri quattro. Inoltre il cavallo simboleggia il movimento, l’energia motrice e, riferito al corpo umano, rappresenta le energie vitali.

Esso, quindi, indica l’armonia degli elementi interni dell’individuo e l’equilibrio che ne deriva, il rafforzamento della vitalità, del potere personale e della salute del corpo. Da qui il nome delle bandiere di preghiera tibetane che spesso vengono chiamate anche “Cavallo del vento”.

Come precedentemente scritto, entrando in questo stato d’essere entriamo nello stato di Flow che ci fa capire che “le cose stanno andando bene”. A questo momento la percezione dello spazio e del tempo viene “alterata”. Una sorta di sospensione delle “cose” che non pregiudica, tuttavia, ciò che stiamo facendo, ciò che siamo e dove siamo.

La mia formazione mi ha portato anche a studiare il modello del Flow per lo studio della prestazione eccellente (peak performance). Momento durante il quale l’atleta si esprime al di sopra del suo standard abituale. Il Flow predispone la performance e genera la peak performance, visto che assomma le condizioni mentali più favorevoli per la prestazione sportiva ottimale.

Consapevolezza, concentrazione totale, mancanza di fattori di disturbo sia interni che esterni, coinvolgimento in ciò che si sta facendo e quindi negli obiettivi concordati con il proprio allenatore. Questi alcuni fattori che ci predispongono, come atleti, al possibile raggiungimento della peak performance attraverso lo stato di flow.

Come atleta, condivido i miei obiettivi con il mio allenatore. So esattamente ciò che sto facendo e ciò che starò per fare. Annullo le distrazioni mentre “ascolto” il mio corpo e le percezioni che mi giungono.

Sembra tutto così naturale e facile da attuarsi. In realtà, come atleta, convivo anche con molti fantasmi che di tanto in tanto si affacciano, sotto forma di pensieri negativi e provano ad intrufolarsi nella mia autostima. Oppure provano a minare la mia sensazione di calma, di confidenza in me stesso e nelle mie capacità e credono, cercano, di attizzare il fuoco della “paura” latente in ognuno di noi quasi come fosse nascosto tra la cenere del camino, pronto a prendere sopravvento e forza al primo spiffero d’aria.

Come fare a contrastare questo stato d’essere (negativo) quando arriva indisturbato e a volte inaspettato?

La mia non vuole essere una ricetta ma un modo d’essere e vivere le cose. È anche per questo che mi approccio giorno, dopo giorno, ad un certo tipo di pensiero buddista, al buddismo. Inteso, tuttavia, secondo criteri induisti piuttosto che edulcorato e trasformato dal pensiero, credo occidentale. La differenza sta nell’approccio, nella radice. Io lo intendo (il buddismo) come via per raggiungere una meta che non è detto venga raggiunta. Semplicemente, uno stile di vita come cita lo stesso Budda. Un incamminarsi su un sentiero che giunge alla consapevolezza delle cose che molto probabilmente incontrerò quando meno me lo aspetto e quando meno se lo aspetta la mia mente razionale, al punto giusto.

Questo approccio personale mi aiuta nelle cose della vita, nel mio stile di vita che è anche quello del “Mauro atleta”.

Lascio accadere, semplicemente, gli eventi quando questi accadono. Nella mia attività sportiva non contrasto le cose. Uso, per così dire, una tecnica attuata dai praticanti di arti marziali: nessun contrasto con l’avversario ma il semplice utilizzo dell’energia dell’altro accompagnandone il movimento, per “vincerlo”.

Come faccio? Un piccolo infortunio, una bagatella, un semplice segnale del corpo? Mi ascolto, mi parlo, mi calmo e faccio capo al mio essere “sagittario”: amante degli spazi sia fisici che mentali.

Mi dico, quando succede, di accettare quanto mi sta accadendo. Senza necessariamente cercare un “perché” delle cose. L’Esistenza, il piccolo filo invisibile che energeticamente ci unisce tutti (secondo un approccio Junghiano) ci darà la risposta, forse, al momento opportuno e magari quando saremo realmente in grado di recepirla. Maturi per poterlo fare.

Una forza interna che si alimenta grazie al mio vissuto passato, a quello che sperimento ora. Non sono, i due secondi persi in una “ripetuta” mattutina ad inficiare un lavoro basato su settimane di allenamento intenso.

Così come non è la sensazione di pesantezza muscolare che ogni tanto provo che mi renderà più lento quando vorrò “scaricare” la mia energia a terra in fase di fartlek.

Correre con il sorriso interiore e sulle labbra. Questo il segreto che mi “passa” il mio allenatore. Godere gli istanti della corsa e farlo (sembra una frase fatta ma non lo è) anche per chi non può fisicamente. Per chi vorrebbe ma non raggiungerà mai il mio livello. Farlo come “esempio positivo” e, come dico ai miei figli, farlo per regalare a chi non ne ha un po’ del loro talento infinito.

Insomma, il piacere di condividere un atto. Sapere che sono da esempio per molti mi stimola ed alimenta la mia felicità. Un saluto quanto corro ed incrocio un altro corridore. Un clacson che suona e qualcuno all’interno che mi dimostra la sua amicizia con quel gesto. Piccole cose, piccoli atti che nutrono la mia felicità e perché no, la mia autostima.

In gara non cambio approccio. Sono convinto che chi corre contro qualcosa o qualcuno ha già perso in partenza, per due semplici motivi. Il primo è che destina parte della sua energia psicofisica all’altro. Indebolendosi e ne sono sicuro rafforzando il suo antagonista. Il secondo motivo è per quanto ho scritto in precedenza; ossia l’approccio alle cose.

Non ho concorrenti. Non corro contro nessuno. Corro per “sfidarmi” per così dire e per, questo sì, andare contro le leggi predefinite. Desidero dimostrare, dimostrarmi ma senza contrasti che si può arrivare a 50 anni ed oltre e grazie al modo d’essere, all’alimentazione e all’approccio alle cose ottenere tempi mondiali (di categoria) di assoluto rispetto in senso lato.

Ogni tanto la prendo come una sfida alla Natura anche se so che poi non lo è. Più che altro lo è verso ciò che viene detto e comunemente preso come legge stabilita e inconfutabile: “invecchi ergo vai più piano”.  Ad aggiungersi, il fatto che mentre voglio raggiungere il mio obiettivo che è quello di tornare (abbondantemente) sotto i 17’ nei 5’000m, cosa che mi porterebbe a raggiungere, a quasi 51 anni, un piazzamento tra i primi 5 ai mondiali master, ho reali sensazioni di eccitazione dovute al movimento.

Lo stato di flow ci porta, mi porta a questa sorta di (permettetemi la definizione) orgasmo mentale.Uno stato di benessere dove ho la netta sensazione di volare a tutti gli effetti.Ogni tanto, quanto “torno in me” durante questi attimi, mi guardo nell’atto della corsa come se riuscissi ad uscire fisicamente dal mio corpo. E mi compiaccio. Mi vedo nell’atto e riconosco la bellezza del movimento supportata, successivamente, dal responso cronometrico. E come ho letto su un sito specializzato, allorquando si parla di flow e “peak performance”, quello è proprio il momento dell’auto remunerazione. Il momento in cui, per così dire, incasso in termini di emozioni. 

Emozioni forti, o meno. Ma emozioni. Questo quello che mi spinge e che alimenta il mio essere, il mio movimento giornaliero.

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Mental Trainer

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